Le “scarpe rosse” per ricordare la giornata contro la violenza sulle donne

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Oggi si celebra la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, istituita nel 1981 proprio nel giorno dell’uccisione avvenuta nel 1960 delle tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, passate alla storia con il nome di Las Mariposas (le farfalle) per la loro lotta in difesa dei propri diritti contro la dittatura di Rafael Leonidas Trujillo, a Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana.

Soprattutto in Italia, il simbolo della lotta contro la violenza sulle donne sono le scarpe rosse, “abbandonate” in tante piazze per sensibilizzare l’opinione pubblica. Il simbolo è stato ideato nel 2012 dall’artista messicana Elina Chauvet con l’opera Zapatos Rojas, la cui installazione è apparsa per la prima volta davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per ricordare le centinaia di donne uccise nella città messicana di Juarez.

In questa giornata è d’obbligo discutere sulla violenza di genere e sulle sue possibili cause, ma anche sulla necessità di una cultura che educhi allo sviluppo delle pari opportunità.  

I dati dell’Eures, Istituto di ricerche economiche e sociali, relativi alle donne uccise in Italia da mariti, fidanzati o compagni sono particolarmente allarmanti. Nell’ultimo anno, complice anche la pandemia che ha costretto molte donne a una convivenza forzata con i propri carnefici, sono morte per mano di uomini all’incirca una donna ogni tre giorni. Secondo i dati ISTAT, inoltre, in Italia il 31,5 per cento delle donne ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Nel mondo la violenza contro le donne interessa una donna su tre.

Quello della violenza omicida sulle donne è stata definita dall’Onu un “flagello mondiale” a causa della sua diffusione in tutti i Paesi. Si tratta di un fenomeno che non conosce distinzioni di classe sociale nè di livello d’istruzione e che costituisce una delle più terribili violazioni dei diritti umani, la quale deriva da un’atavica concezione del rapporto uomo donna, in cui le donne sono considerate sempre in una posizione subalterna rispetto agli uomini.

Questo argomento crea ampi dibattiti sul ruolo della donna nella società italiana, nonché sulle strategie educative e culturali da adottare per frenare questa terribile mattanza di genere.

Tra le cause c’è sicuramente una cultura maschilista che dalla Bibbia, che vuole la donna nata da una costola di Adamo, attraversa il Medioevo e tutte le successive epoche storiche per giungere ai giorni nostri, perpetrandosi in alcuni rituali apparentemente innocenti, come quello che per tradizione vuole la consegna all’altare della donna dal padre allo sposo, come se la donna fosse un oggetto di cui al momento del matrimonio cambia solo il proprietario.

La cultura patriarcale si insinua negli essere umani sin dall’infanzia con la scelta di giocattoli per bambine che hanno a che fare con il lavoro domestico, la maternità e la bellezza, mentre quelli per bambini sono spesso bellici, aggressivi o riguardanti sport competitivi.

Così le bambine imparano che essere donna vuol dire essere bella, prendersi cura di altre persone e impegnarsi nel lavoro domestico. Ai bambini, invece, viene insegnato come sviluppare la competitività perchè la mascolinità è sinonimo di forza fisica, potere, autorità e uso della violenza.

La nostra cultura, nonostante tutte le lotte per l’emancipazione femminile, è piena di stereotipi maschilisti persino nel lessico, per certi aspetti “sessista”, e penetra anche nel modo in cui viene trattato dai giornali il fenomeno del femminicidio, con titoli che cercano di salvare spesso la figura dell’omicida e di addebitare alla vittima le colpe di voler essere autonoma, indipendente, di voler essere insomma se stessa.

Anche lo stesso termine di femminicidio è un termine sessista, perché allude all’uccisione della “femmina”, parola che si riferisce alle caratteristiche fisiche che fanno di un essere umano una donna e che, secondo una definizione che fa riferimento all’etimologia del termine, significa “colei che genera, che nutre, che allatta”, rispetto al più nobile vocabolo donna, che deriva dalla parola latina “domina”, la quale significa padrona. Spesso anche la definizione di delitto passionale, che allude al delitto d’onore abolito nel 1981, sottolinea come alla base dell’assassinio ci sia l’amore, perché la passione è una componente indispensabile dell’amore stesso.

Sappiamo benissimo, però, come strettamente collegata alla parola amore sia la parola rispetto,  mentre il suo contrario è proprio il termine violenza.

Tra le numerose considerazioni sulle dinamiche a fondamento della violenza di genere, ma soprattutto del femminicidio, una è relativa ai meccanismi psicologici alla base del rapporto degli uomini con la morte e il lutto.

Ciò che ci fa di più soffrire quando muore una persona amata è il distacco forzato, che produce nella nostra vita un cambiamento radicale da un punto di vista pratico ed emotivo-sentimentale. L’elaborazione del lutto risponde proprio alla necessità di far fronte all’assenza ma anche alla necessità di dover reimpostare la nostra quotodianità cambiando le abitudini delle nostre giornate.

L’abbandono, il distacco forzato e l’assenza sono anche le caratteristiche tipiche della fine di una relazione sentimentale. Colui che è stato lasciato dalla compagna si sente abbandonato come se avesse subito un vero e proprio lutto.

Tuttavia a morire, in questo caso, non è la persona fisica, ma la relazione amorosa. La perdita ha luogo solo a livello simbolico, ma spesso chi è stato lasciato non accetta la morte del legame e considera anzi la continuazione del rapporto come condizione indispensabile della ripresa della propria vita. Questo bisogno si può trasformare, quindi, nella ricerca della morte fisica dell’amata, che diviene nella psiche dell'”innamorato” l’unico modo per poter continuare il rapporto sentimentale.

Si tratta di meccanismi psicologici, che scaturiscono da sentimenti di possesso, orgoglio, gelosia, ma anche da un’educazione infantile sbagliata che ha causato traumi e frustrazioni. Spesso il “femminicidio” e più in generale la violenza di genere sono la conseguenza di un miscuglio di aspetti culturali, educativi, patologici, ma anche personali che riguardano la storia individuale dei protagonisti. Inoltre, molte volte l’uccisione della compagna o la violenza, non solo fisica ma anche psicologica, avviene quando la relazione è ancora in corso. Alla base c’è sempre una concezione distorta della donna in una cultura ancora patriarcale, che impronta i rapporti di potere tra i generi e che limita l’eguaglianza sociale, politica ed economica delle donne in tutti i paesi del mondo.

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