“Lo racconto a 24live”: le riflessioni del barcellonese Giuseppe De Francesco, console onorario in Bulgaria

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Oggi ospitiamo sul nostro giornale le riflessioni sulla vita al tempo del Coronavirus di un cittadino barcellonese illustre, Giuseppe De Francesco, Console Onorario d’Italia a Plovdiv dal 2010. Negli anni Novanta, dopo aver conseguito la Maturità Classica al Liceo “Luigi Valli” di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe ha lasciato definitivamente la sua città prima per frequentare la prestigiosa Università di Perugia, dove si è laureato in Scienze Politiche, indirizzo Sociale, poi per trasferirsi, a partire dal 2004, in Bulgaria. Tuttavia, ha sempre mantenuto un legame profondo con la sua città d’origine, dove ritorna quasi tutte le estati. Quest’anno, se non fosse stato per l’emergenza causata dalla pandemia, il suo ritorno nella città del Longano sarebbe stato anticipato a febbraio per partecipare a un matrimonio.

Bregovic tornerà a suonare

Laura e Bilyana, con civetteria tutta femminile, ormai da mesi parlavano di quel matrimonio: i vestiti e le scarpe, persino come agghindare i capelli e quali monili indossare. Anch’io ero eccitato dall’idea di tornare a Barcellona fuori dalle feste comandate, in una qualsiasi settimana lavorativa di fine febbraio come non mi accadeva da oltre 20 anni. Quando i primi divieti e le notizie convulse che giungevano da ogni parte ci impongono di rinunciare al viaggio, il primo pensiero è come comunicarlo a Laura, ne rimarrà delusa sino alle lacrime, non porterà le fedi all’altare e non ballerà al suono dell’orchestra.  Ancora non sapevamo che nelle settimane a venire sarebbero state ben altre le lacrime da versare. Siamo ad inizio Marzo e da là in poi, prima in Italia e poi in Bulgaria, il virus sconosciuto avrebbe spento la luce: limitazioni, obblighi e chiusure che la mia generazione, quella dell’Interrail, dell’Erasmus, dei concerti negli stadi e delle vacanze studio all’estero, mai aveva vissuto. Comincia la conta quotidiana delle vittime, la zona rossa e gli esodi di un’umanità impazzita, la curva che schizza in alto e nuovi paesi che si aggiungono sul mappamondo del contagio.

Ed è incredibile la capacità di adattamento dell’uomo, ci si abitua alla mascherina come fosse l’orologio al polso, la fila al supermercato diventa quasi un’occasione di svago, sperimenti addirittura il piacere di rimanere a casa mentre solo qualche giorno prima pensavi che saresti impazzito senza uscire. Il ritmo della giornata è scandito dal nemico invisibile, sulla rete spariscono repentinamente gli allenatori di calcio e compaiono esperti epidemiologi. E mentre pensi che nonostante loro ce la faremo, arriva la notizia che mai avresti voluto sentire. Lo zio ci ha lasciati e all’inizio pensi proprio che sarà un’assenza temporanea, se ti dicono che se ne è andato significa che magari ritornerà e tutto sarà come prima. Invece è già un numero e non più un corpo, perchè morire in tempo di coronavirus significa essere trasportato con i convogli militari, chissa dove, e attendere il proprio turno per ritornare cenere. Ho provato ad immaginarmi allora io il funerale, quello che secondo me sarebbe piaciuto a lui, e non ho avuto alcun dubbio: sono certo che lo avrebbe voluto con il carminio e l’azzurro dei sui quadri, un corteo variopinto, rumoroso e solenne come la processione del venerdi di Pasqua, velato di malinconia e assieme gioioso perchè muore l’uomo ma rimane la speranza che altrove, o in noi stessi, risorgerà. Ci sarebbe stata la banda con la marcia funebre, i fiati e quella vibrazione dei piatti che ti ipnotizza. E invece, di nuovo, nessuno ha suonato, e anche il secondo rito di passaggio di questa storia, il funerale dopo il matrimonio, è rimasto silenzioso e deserto. Persino la musica dei primi giorni sui balconi ormai tace, chinandosi davanti alle bare allineate negli obitori, nelle corsie di ospedali e dove era rimasto ancora spazio, agli anziani che si sono spenti negli ospizi abbattuti come mosche, alla generazione della ricostruzione postbellica che è stato decimata, all’ululato delle sirene, agli uomini e alle donne costretti a piangere i propri cari in solitudine.

Adesso sembra vada un pò meglio, così dicono scienzati, politici e generali che in Italia e in Bulgaria scandiscono i tempi del nostro isolamento. Passata l’emergenza rimarranno i frammenti di queste settimane: il viso piagato dei medici, il coraggio degli infermieri in prima linea, le miserie di chi prova a speculare nella tragedia, il Papa nel fragoroso silenzio di piazza San Pietro e solitario pellegrino in una via del Corso deserta come mai lo era stata. Immagini che sono già storia. Nella mia personale storia di questo scorcio di vita e morte rimarrà invece il rettore dell’Università di Perugia, dove sono arrivato ragazzo e ripartito adulto, che con la voce rotta dal pianto dice ai suoi studenti che “quando tutto sarà finito faremo una grande festa e mi ubriacherò anche io”. Mi inviti a questa festa, la prego, Magnifico, e io verrò con Laura. E, se posso permettermi di suggerirle, inviti anche Bregovic con la sua “Orchestra per matrimoni e funerali”, che possa finalmente rompere il silenzio con la grancassa e la fisarmonica, facendo risuonare la città di indiavolati ritmi balcanici. Io non mi ubriacherò sig. Rettore, perchè voglio essere sobrio sino alla fine e godermi l’ultimo rito di passaggio di questa storia: inebriarmi di Laura nel suo vestito porpora, quello del matrimonio, che ride, balla e rimane senza fiato per la felicità di essere ritornata alla vita.

https://youtu.be/g6lKgZKdc04
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