Sull’onda dell’emozione… una lettura critica del “Gattopardo”

- Attualità, Discorsi sulla soglia

La splendida rievocazione di Alberto Angela, vera celebrazione di panorami d’incanto, storia millenaria, letteratura fascinatoria e arte senza tempo, ha certamente entusiasmato gli animi siciliani, sempre un po’ narcisi riguardo alla loro Terra madre, sempre gelosi e innamorati custodi del proprio mondo, in linea con la gattopardiana “insularità d’animo “. A ragione, peraltro, perché l’excursus di Angela, infallibilmente d’ottima fattura ad ogni puntata, qui ha toccato vette quasi inarrivabili. Vorremmo fosse anche un’occasione per far sbiadire la fastidiosa etichetta applicata al romanzo, e da lì scivolata persino sulla trasposizione cinematografica di Visconti; quella ingabbiata lettura di “gattopardismo “in cui si costringe la complessità di un’opera straordinaria, qual è quella di Tomasi di Lampedusa. La collocazione nel “genere”di romanzo storico credo sia ormai smentita negli ambienti più attenti; eppure, nella vulgata, la narrazione viene ancora identificata con la losca operazione di camaleontismo della vecchia classe dirigente, intesa a mantenere i propri privilegi. Qualcosa che si protrae e tramanda nella letteratura siciliana, o di argomento isolano, e aveva già un precedente interessante ne “I viceré “di De Roberto. Certo, nell’affermazione spavalda e allegramente cinica del bel Tancredi, a cui il nobile zio tutto perdona, indulgendo alla sua giovinezza tra ingenua e spregiudicata, c’è una verità inoppugnabile, a cui la prassi politica ci ha da tempo abituati. Né ci si può sottrarre al fascino ambiguo di queste  manovre sottili, che manipolano gli eventi neutralizzandone la portata innovativa, per cristallizzare la Storia a vantaggio dei soliti noti.

Ma questa fissità di interpretazione del romanzo ne ha sottratto o deformato il nucleo originario, mortificandone la portata e immiserendone il senso globale. L’ha spogliato della sua grandezza. Il Gattopardo è, sì, specchio della Sicilia: della sua bellezza e della sua mortifera passività, della ingenita dicotomia tra vitalismo e brama del Nulla, tra esplosione dei sensi e attrazione di morte. Stridente coesistenza di opposti, che è la segreta radice di tanta fortuna del Barocco  nell’isola.  Alla sensualità, alla percezione  carnale della realtà fa da contraltare la stasi, il “sonno”, quasi un cupio dissolvi:  tensioni antinomiche e inscindibili, così straordinariamente incarnate nel Principe Fabrizio -e nell’Autore- ma che rinviano ad una inquietudine esistenziale, che va ben oltre la circoscritta “sicilianita’ “. Ne è riprova la costante percezione del vivere come fluire verso il Nulla: quel sublimare la narrazione attraverso il distacco di chi ha capito il gioco, lo filtra con l’intelligenza, sa astrarsi, pur conoscendone l’attrattiva, spesso volutamente sperimentata. Da questo abisso di insoddisfatta ricerca, dalla superiore solitaria dimensione di chi abbraccia l’universale vacuità degli eventi umani, nasce il corteggiamento della morte, che si suggella nella fine del Principe, nella visione della ineffabile Signora, che scioglie quell’ansia di vita e quell’affanno di relazionarsi con l’assurdo. La tensione conflittuale vita-morte è una costante di Tomasi, accanto all’amaro disincanto e al tagliente, aristocratico estraniarsi dalle banalità e vanità dell’umano agire. E,su tutto, una profonda malinconia, inquieta e corrosiva, che si placa solo nel definitivo dissolvimento. Così, nel bellissimo racconto “Lighea” (che pare lui intitolasse”La Sirena”, secondo quanto riferito da Gioacchino Lanza Tomasi). Qui si ripropone il dualismo psicologico ed esistenziale nell’antico professore di greco, eccentrico e misantropo, che ha la stessa distanziata grandezza del Principe, lo stesso approccio carnale al vivere, identica tensione all’assoluto: non il trascendente (grande assente  nell’Autore), ma la brama di assolutezza umana, tormentosa aspirazione di impossibile completezza.

La storicità di un romanzo non si definisce tanto sulla base dei grandi eventi sullo sfondo, quanto  sull’intima connessione tra  questi ultimi e i personaggi, sulla mentalità  dell’epoca, ricostruita dall’interno: aspetti certo presenti nell’opera di Lampedusa, ma non fondamentali. Ciò che predomina è l’alone di profonda malinconia: lo sguardo lucido che tutto avvolge e comprende delle insanabili beghe sociali,delle astuzie feline e bassezze inconfessabili, in quella dilatata teatralità, costituita dalla macrostoria e dalla piccola cronaca individuale. Dunque, la vieta formula, del  cambiare tutto per non mutare niente, resta, certo, di incontestabile, esiziale, attualità, ma il senso e il valore del romanzo si colgono solo prescindendo dalle interpretazioni rituali in cui, almeno parzialmente, è stato imprigionato. Sono nella contemplazione della vita  e della morte, nella solitudine del protagonista, nel sentire e soffrire  l’implacabile metamorfosi d’ogni cosa,nell’appassire e spegnersi della fisicità, disancorata dalle sue primitive certezze. E le rivoluzioni storiche vere o mancate, che si riverberano nelle trame grottesche ma abili dei Sedara, la sostituzione delle classi al potere, per un sostanziale immobilismo, sono funzionali alla rappresentazione dell’inesorabile vanità dell’affannarsi umano. Entro una visione “decadente”, ma di presa artistica perenne, si colloca il tassello del giudizio politico: vicenda dilatata a una globale visione esistenziale.

Come nel richiamo di Lighea, la fanciulla immortale del racconto, la morte appare il vero approdo pacificante: la soluzione all’inappagata ansia di vita, e all’assurdo della Storia, è, piuttosto,  nella dissoluzione. La stessa lettura del romanzo sembra prolungare  l’eco dell’invito della sirena, la sua pietosa promessa d’una sorta di immortalità, nella quiete del Nulla: “E solo allora, la tua sete di sonno sarà saziata”.

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