Il sei luglio alle cinque del mattino / il tram a vapore partito per Messina / emise dall’imbuto fumo / faville e un lungo fischio. / Appena nato girai la testa / verso quel primo saluto della vita. / Appartengo a una razza / bisognosa d’auguri / mi dolgo di non potere / stringermi la destra con la destra / baciarmi le guance / quando una volta l’anno / mi scorre accanto / zampettando all’alba / l’acquatico figlio della luna / che porta la mia sorte sigillata / nel pentagono della sua corazza.
E’ il testo della poesia “Cancro”, che Bartolo Cattafi pubblicò nel 1972 (anno in cui compì cinquanta anni) nella raccolta “L’aria secca del fuoco”, che segnò – dopo un silenzio di circa otto anni – l’inizio dell’ultima fase della sua produzione poetica, interrotta dalla morte per cancro nel 1979.
La lirica in forma epigrammatica è ricca di stilemi fonici e di riferimenti metaforici: nell’atto di girare la testa appena nato, attirato dal fischio del tram a vapore in partenza, il poeta allude al suo anelito di vitalismo nomade. Nel giorno del suo compleanno con spirito autoironico si duole di non potersi sdoppiare, per darsi da solo sinceri baci e strette di mano, di cui sente la necessità, dal momento che appartiene ad una razza che ha tanto bisogno di auguri e la sua sorte è sigillata dal destino nel suo segno zodiacale del cancro.
In quel dolore Cattafi – con leggerezza calviniana – allude al pessimismo antropologico, reso più acuto dalla perdita di centralità dell’io poetico, che sta alla base della sua visione del mondo. Nella lirica Cricetide (da “La discesa al trono”)la condizione esistenziale del girare a vuoto dell’io poetico è raffigurata come quella dell’animale solitario e goffo: Cricetide che i rudimenti conosce / l’alfabeto della maratona / roditore di sterili chilometri / saltato su una sfera / la faccio ruotare in aria / intorno al suo asse saldato / a due pareti di gabbia / con quattro zampe / la fronte corrugata / occhi lucenti e muso / protesi all’orizzonte / compio così viaggi interminati / sul rotondo veicolo / della mia solitudine.
Nel linguaggio cattafiano le bestie rivestono un ruolo primario soprattutto quando la scrittura tende a focalizzare l’assurdità del reale, che il poeta illustra freddamente con una costellazione di situazioni che si riferiscono alla disumanità, che annulla ogni barlume di solidarietà sociale. Sull’argomento si sono soffermati vari critici e Maria Greco ha svolto la sua tesi di laurea, conseguita all’università di Bologna nel 2008.
La parità tra uomini e bestie è evidenziata nel fatto che entrambi sono pronti ad azzannarsi e sbranarsi a vicenda, per soddisfare i propri bisogni (cibo, sesso) o semplicemente per il piacere di incutere paura (una realtà oscura simile a quella che emerge, sia pure in forme diverse, dalla scrittura di Leonardo Sciascia, o di Luigi Pirandello).
Nella lirica Preistoria del “L’osso, l’anima” il grido dell’uomo preistorico è chiamato muggito, che si ode assieme all’ululato del lupo.
La condizione dell’uomo è assimilata a quella delle bestie nella lirica Inizio (dal “L’aria secca del fuoco”), in cui Dio “Dall’alto d’una nube / radunò uomini e bestie / e disse loro: Il tubo che vi do deve passare / dentro il vostro corpo; / agganciate i capi / alla bocca al didietro / spenderete la vita / per avere montagne / in entrata e in uscita”.
Le tarme simboleggiano la corruzione, il negativo della vita è rappresentato in vermi, o farfalle, che sono emblemi di morte. Le mosche sono gli insetti più abietti e meschini.
L’uccello di passo, l’anatra, condivide la condizione di precarietà dell’io. Entrambi seguono la stessa rotta, andando incontro al pericolo di morte, raffigurato dagli spari dei cacciatori (“Anatra azzurra”). L’uomo è vittima o carnefice, predatore o preda con le spalle al muro. L’io che si oppone inutilmente alla violenza è adombrato nell’allodola ottobrina che s’alza in volo e canta “invece”, mentre viene uccisa dal piombo del cacciatore (“L’allodola ottobrina”).
I topi sono allegorie della depravazione dell’anima; lupi e iene sono le forze maligne, emissarie di Satana: rappresentano le ombre nascoste dell’inconscio, i desideri repressi dell’uomo e anche la ganga, la putredine del mondo, il cui meccanismo è azionato da forze occulte. Nella lirica La tigre del “L’osso, l’anima” la bestia feroce rappresenta l’allegoria della crudeltà del congegno che governa l’universo. Nei confronti dell’amante traditrice l’io poetico riversa il suo disprezzo, presentandola nella lirica “Mida” come una cagna bastarda, che non ha un padrone e quindi è infedele. Nel “La torre” il cuore della donna viene definito verminoso; la donna è incarnata in una capra nella lirica “La capra beduina”.
L’estrema varietà del mondo viene rappresentata – oltre che in animali striscianti che, come lo scarafaggio di Kafka, suscitano pensieri angoscianti – anche in insetti la cui fragilità è espressione di uno stato di sofferenza.
Solo pochi, come i bachi della frutta, vivono invece in una condizione fortunata, in una nicchia di felice inconsapevolezza.
Due cagne, Edi e Tea, che erano state compagne di gioco infantile del poeta, ora diventano angeli ai quali l’io poetico chiede conforto.
I versi di Cattafi – come ha scritto Giovanni Raboni – col passare degli anni acquistano in freschezza o addirittura in novità. E la sua poesia è un cammino visionario e allucinante in mezzo allo spettacolo sconcio e disarmante della impossibilità di eliminare nei rapporti umani l’odio, la pulsione alla crudeltà, il sopruso, la diffidenza, il disamore.
In una umanità che ha perso il senso del sacro, l’epifania del divino è un desiderio inappagato: Ignoto è il regno / alba e attesa, crepuscolo di nubi dove Dio / s’annida come un colombo gutturale (“Nell’atrio, in attesa”).
Nel “L’osso, l’anima” la prevalenza dell’assurdità del vivere riduce l’anelito religioso ad una richiesta di aiuto nell’unica lirica “Oggi”: Accoglimi, / assieme ai pesci sguazzanti all’ingrasso / nell’acqua del Giordano / nella tua casa di marmo.
Purtroppo Dio rimane nascosto e la fede tarda ad affermarsi. E tuttavia Cattafi non cessa di investigare il sacro. La ricerca spirituale viene allegorizzata nella rotta degli uccelli. Nella lirica “Come vecchi saggi” la presenza del divino è raffigurata nella colomba (immagine dello Spirito Santo nella religione cristiana) con nel becco l’ulivo, simbolo della pace da contrapporre all’imbarbarimento: Come vecchi saggi questi ulivi / aspettano che tutto il tempo passi / che il sole diventi nero / il mare sale secco / che la colomba per sempre abbia / nel becco l’ulivo.Nonostante nell’animo del poeta persista l’alternanza tra il vuoto e il silenzio, la poesia diventa tentativo di dire l’invisibile, l’indicibile, l’ineffabile.
Infine, prima della scoperta della malattia, in seguito alle conversazioni con il gesuita padre Weber, negli ultimissimi anni di vita il cammino verso Dio spinge Cattafi all’approdo nella fede: “E’ qui che Dio m’assiste / lungo la parte più assurda della vita / saldamente incollato / su questa traiettoria / ad occhi chiusi vinco / la vertigine il vuoto la mia storia”(E’ qui che Dio). “In Te confido / tutto ho rubato al mondo / Sei il Cubo, la Sfera, il Centro / me ne sto tranquillo / tutto t’è stato ammonticchiato dentro“ (In Te).