Il Prisco di Aliberti scelto da ARACNE Editrice per la critica letteraria

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Il nuovo volume sul grande scrittore Michele Prisco, deceduto nel novembre 2003, intitolato “Michele – un Uomo e uno Scrittore nel buio della coscienza” edito ARACNE Editrice Roma che pubblica 6 volumi l’anno, scelti tra i diversi settori del sapere scientifico, si è orientato per la critica letteraria su un tomo a cura di Carmelo Aliberti. La scheda seguente è di suo pugno.

Michele Prisco è stato considerato uno dei grandi maestri del romanzo
italiano del Secondo Novecento. La sua scomparsa è avvenuta nel
novembre del 2003, nella sua abitazione napoletana di Via Stazio 8,
dove negli ultimi anni fu amorevolmente assistito e confortato dallo
smisurato affetto dalle sue amorevolissime figlie Annella e
Caterina, (la adorata moglie Sarah Buonomo, eccellente musicista, era
morta un decennio prima ), che ora idealmente continuano la
incalcolabile azione culturale paterna e ne ravvivano il ricordo con
una intensa attività di diffusione dell’opera paterna, attraverso la
fondazione da loro voluta per mantenere accesa l’attenzione della
critica che lo celebrò tra i grandi, non solo per le sue elevate doti
narrative, ma anche per la coerenza delle sue teorie e delle sue idee
di altissima caratura formativa, educativa e illuminante per il
lettore di ogni generazione, progressivamente sintonizzate sul
percorso evolutivo dell’uomo nella temperie della storia reale e
l’incisivo processo interiore dell’anima dei personaggi.

Dalla prima stagione narrativa dentro l’alveo della borghesia vesuviana,
Prisco radiografò e raccontò non solo gli ambigui rapporti con gli altri, adoperati come maschera, ma anche la catabasi dentro i sotterranei e laceranti contorcimenti dei personaggi borghesi, che , di fronte alla presente sconfitta, inflitta dall’evoluzione storica, penetrano con procedimento spiralizzante, fino alla scoperta di un’inguaribile
ferita nel sottosuolo dell’io, per spiegare a se stessi la causa della
loro sofferenza esistenziale e della loro espulsione dal circuito
della civiltà, nel segreto anelito di capire il vero senso della
colpa, che li ha ingoiati nella bolgia infernale della vita.

Nella seconda fase del suo itinerario narrativo Prisco, particolarmente
nelle opere successive al ’68, dopo aver descritto le delusioni, le sconfitte, ma anche i fatui entusiasmi della deludente svolta del secondo dopoguerra, quando, constatato il seppellimento dei sogni di redenzione partigiana, alcuni scrittori, tra i maggiori rappresentativi del Neorealismo, riprendono la via dell’”Aventino”, cioè si allontanano dallo scrutinio della mitizzazione della Resistenza, per tornare a recuperare le ragioni del cuore. Tra i delusi, bisogna ricordare Calvino, prima militante partigiano e con la Trilogia (particolarmente con “Il barone rampante” si costruisce una città irreale sugli alberi, dove continua a vivere come in una città reale, ma dove tutto acquista il gusto del vivere responsabilmente con sentimenti intatti). Anche Cassola, ne La ragazza di Bube, sulle radici esperienziali del Neorealismo, gradualmente coglie nella traiettoria esistenziale di Mara e di Bube, l’anelito di un approdo ad una vita nella normalità di una famiglia. Lo stesso Berto, catalogato inizialmente come neorealista, sprofonda nei gorghi de Il male oscuro, dilagante nella società culturale, dopo il rinnegamento dei valori illusivi della nascita di una società più umana e più giusta, lo
stesso Moravia, con la Noia, opera un’opera di dissacrazione dei disvalori in cui è sfociata dalla Resistenza e né il successo artistico, ne l’opulenza finanziaria, né alcuna forma di piacere, gli restituisce la quiete interiore, quando capisce che la febbre del piacere in acquistabile degenera nell’angoscia di vivere.

La sua prima opera, La provincia addormenta, nata da un biologico bisogno di esternazione delle storture e della sterile lotta contro la decadenza
da parte della borghesia vesuviana, sembrava risentire dei barbagli del Verismo e del naturalismo, ma il dissolvimento dell’equilibrio e la radiografia razionale del labirintico “male “oscuro” e l’utilizzazione dello scavo psicologico, evidenziano come le radici più autentiche della narrativa di Prisco bisogna ricercarle, sia nelle opere dei grandi scrittori russi e i francesi dell’Ottocento, oltre che nella narrativa inglese di Meredith ed altri, da cui aveva assimilato la tendenza a cogliere nella interiore realtà umana il dolore dell’incontro con la povertà della vita e la resistenza del cuore umano al pestaggio di ogni dolore. Verga ha rappresentato la condizione infelice e schiavizzata dei poveri e dei vinti e l’anelito all’ascesa sociale, sconfitti (oltre che dal destino) da pedisseque ambizioni di ricchezza. Prisco utilizza la letteratura come strumento di ricerca e di conoscenza dello spessore ideale dell’essere, alla ricerca del perimetro ideale, in cui ha senso vivere.

Egli si mantiene lontano dagli arzigogolati equilibrismi verbali delle avanguardie, che ritiene ragnatele pirotecniche, tese più ad apparire che a
concentrarsi sulla conoscenza sulla reale condizione esistenziale del genere umano. Prisco, invece, aveva della letteratura una visione insostituibile per ogni forma di analisi ontologica, ma soprattutto, come arte maieutica di conoscenza degli abissi e dell’inferno che brucia ogni alito di serenità e di amore, che lo scrittore, dopo l’anamnesi endoscopica dei sommovimenti inconsulti nel sottosuolo del cuore, dell’anima, della ragione e dall’urgenza di scoprire il vero senso della vita.

“Il pellicano di pietra” è uno dei romanzi più emblematici della lotta di Prisco contro il Male del mondo e contro la crudeltà di una madre, Margherita”, titolare di un negozio di tessuti, alla fine della guerra, si arricchisce smisuratamente, guidata dalla satanica febbre di arricchimento e di piacere, tanto da rubare anche i fidanzati alle figlie, condannandole ad un dolore infinito, e sposando un povero uomo, senza amarlo, ma tradendolo frequentemente, lo induce al suicidio. In tal caso, come in tante situazioni narrative prischiane, sulla scena del teatro dell’assurdo si dipanano vicende di realistico orrore, ma l’obiettivo dello scrittore orienta il riconoscimento del suo messaggio catartico, nella proposta di lettura
del male, attraverso la metodologia eliotiana del correlativo- oggettivo, poi utilizzata anche da Montale. Il Pellicano in Prisco recupera il significato del messaggio d’amore materno, come quello manifestato nel mito dal Pellicano che si squarciò il petto, offrendo anche il cuore come cibo, per la sopravvivenza dei suoi figli.

Pur tenendosi lontano dalla squallida bagarre della vita politica, in cui
individuava la nemica dei suoi valori, tanto da continuare il suo
progetto di ricostruzione etica dell’uomo, con le armi penetranti e
catartiche della letteratura. Come Dostojevskji, Prisco
coraggiosamente, in virtù dell’investitura ricevuta di guida ideale
dello scrittore nella società, si tura il naso a contatto il fetore
che si annida nell’essere umano. Un personaggio molto positivo si
rivela Giustina, protagonista de “ Le parole del silenzio”, una povera
creatura, che, dopo aver attraversato tante tempeste nella vita,
riesce a conseguire la realizzazione del sogno inseguito, trasformando
la propria vita in simbolo di risorgimento dell’essere, che ha creduto
e lottato per la realizzazione di sé, nel contesto di una società in
marcia verso la conquista dei più autentici valori democratici, meta
di ogni società civile, in cui l’uomo possa liberamente realizzare il
proprio destino.